L'affermazione della signoria scaligera
(1262) aprì una fase di rinnovamento edilizio,
che ebbe il momento centrale nella costruzione
di Castelvecchio (1354-57); ora vi è ospitato
il Civico museo d'arte, uno dei maggiori d'Italia.
Centro nevralgico della città è
la piazza delle Erbe, che sorse per progressiva
riduzione dell'area del Foro romano e acquistò
l'aspetto attuale per gli interventi di età
scaligera. All'angolo con Via Mazzini, vi sono
ancora le fronti delle case-torri, avamposto del
ghetto demolito nel 1924. Adiacente a quella delle
Erbe, la piccola piazza dei Signori (l'antico
centro politico). Vi si affacciano i palazzi del
Comune (XII secolo), del Capitanio (1363), della
Prefettura (XIV secolo) e l'elegante Loggia del
Consiglio (1485-92). Poco distante si trova il
complesso delle Arche scaligere, una delle vette
della scultura funeraria gotica, che accoglie
le tombe dei della Scala.
Sant'Anastasia, maestosa chiesa gotica (1290-1481),
sorge più a nord; spicca sulla facciata
incompiuta lo splendido portale. L'interno racchiude,
tra le molte opere, un grande affresco (1370 ca.)
di Altichiero e il capolavoro di Pisanello, San
Giorgio che parte per liberare la donzella dal
drago. Quasi sulla punta dell'ansa è il
Duomo (1117, ampliato nel 1444), sulla cui facciata
romanica si apre il protiro a due piani. Sulla
stessa piazza si trova la Biblioteca capitolare,
una delle più antiche (la fondazione dello
Scriptorium risale al V secolo) e ricche istituzioni
del suo genere in Europa, con codici rarissimi.
La Porta dei Bùrsari era l'ingresso principale
della città romana; fu aperta (metà
del I secolo) sulla via Postumia, che dentro le
mura coincideva con il decumano maggiore. Oggi
ne rimane la sola facciata esterna.
Via Mazzini fu aperta nel 1393 da Gian Galeazzo
Visconti sul tracciato di un decumano minore per
collegare le piazze Bra' e delle Erbe; venne ricostruita
nel XIX secolo. Piazza Bra' è il maggiore
centro di ritrovo cittadino: fu realizzata tra
il 1770 e la metà del XIX secolo, quando
si crearono il listòn, il Museo lapidario
Maffeiano, i palazzi della Gran Guardia Nuova
(1848) e della Gran Guardia (1610-1836). Domina
la piazza la mole dell'Arena, terzo anfiteatro
d'Italia con 25 mila posti. Venne costruita nei
primi decenni del secolo a.C. Corso Cavour segue
il tracciato dell'ultimo tratto suburbano della
via Postumia; fu l'asse portante dello sviluppo
della città medievale e su esso si concentrò
l'intervento di Michele Sanmicheli, architetto
veronese del Cinquecento. Suoi sono i palazzi
Bevilacqua e Canossa.
Meritano infine una segnalazione due monumenti
lontani dal centro storico: San Zeno Maggiore
è un capolavoro del romanico italiano,
sorto alla fine del IX secolo e riedificato nel
1120-38. Al lato opposto della città, sorge
l'area archeologica del Teatro romano; il complesso
(I secolo d.C.) è uno dei più ricchi
dell'Italia settentrionale; vi ha sede il Museo
archeologico.
La prima notizia indiretta sulla presenza di un
nucleo ebraico a Verona risale al X secolo; nell'anno
965, il vescovo Raterio ne ottenne infatti l'espulsione
sulla base di un contraddittorio religioso. Due
secoli dopo, gli ebrei ricomparvero in alcuni
documenti di San Giorgio in Braida, databili tra
il 1169 e il 1225 (un testamento e alcuni atti
di compravendita), che dimostrano non solo il
loro rientro in città, ma anche il possesso
da parte loro di proprietà immobiliari
nell'ambito urbano e di terreni nelle campagne
circostanti. Dai nomi citati, si deduce l'origine
askenazita del gruppo originario, per lo più
composto da profughi sfuggiti alle persecuzioni
in terra tedesca. Un legame, quello con i correligionari
d'oltralpe, destinato a non venire meno, come
si ricava dagli Incartamenti dell'Ospitale e degli
Esposti, che testimoniano i frequenti contatti
tra la città atesina e l'ambiente germanico.
La presenza ebraica proseguì nel periodo
successivo: tra il 1146 e il 1147 vi soggiornò
il poeta Abrahàm ibn Ezra, che vi compose
due opere; così come sono degni di menzione
il rabbino Eliezer ben Shemuel e il filosofo e
talmudista Hillèl ben Shemuel. Mentre si
dà per certa la presenza di un tribunale
rabbinico a Verona nel 1239, è scarsa la
documentazione relativa al periodo del dominio
scaligero. Con ogni probabilità, il poeta
Immanuel ben Shelomoh Romano (detto Manoello Giudeo)
trascorse un periodo alla corte di Can Grande
della Scala, descritto con vivacità nel
Bishidis a Magnificenza di Messer Can della Scala
dove scriveva: Baroni e Marchesi / di tutti i
paesi, / gentilli e cortesi qui veddi arrivare.
/ [...] Quivi babbuini / romei, peregrini / giudei,
sarracini / vedrai capitare.
Il ritorno ufficiale degli ebrei a Verona coincise
con l'inizio della dominazione veneziana. Con
un atto del 31 dicembre 1406 la Serenissima li
autorizzava a risiedere in città, a patto
che praticassero esclusivamente il prestito. In
quell'occasione fu loro assegnato un quartiere,
in contrada San Sebastiano. In vicolo Crocioni
(nei pressi di piazza delle Erbe) venne edificata
la prima sinagoga, con ogni probabilità
di rito tedesco. Non si trattava ancora, tuttavia,
di una sistemazione definitiva. Nuovamente espulsi
e ancora richiamati nel 1499, gli ebrei si stabilirono
definitivamente in città solo dopo la fine
del 1516 quando la Serenissima, agli ultimi atti
della rovinosa lotta contro la Lega di Cambrai,
riuscì a riscattare Verona.
Accordato alla Dominante un prestito di diecimila
ducati, gli ebrei veronesi conobbero dunque un
periodo di relativa prosperità. Accanto
ai prestatori e ai mercanti all'ingrosso, comparvero
anche sensali e rigattieri, professionisti e sarti.
Il gruppo (perché di comunità non
si può ancora ufficialmente parlare) controllava
inoltre direttamente gran parte della manifattura
dei fustagni e di altre stoffe. Anziché
continuare ad abitare nei dintorni di vicolo Crocioni,
molti scelsero altre zone cittadine, mentre gli
ebrei di Venezia dal 1516 erano già stati
chiusi nel ghetto. Risale al 1539, il primo computo
ufficiale degli ebrei veronesi, stimati a circa
400 individui secondo la Raccolta di memorie delle
adunanze, documento utilizzato per stabilire il
pagamento delle tasse. Ma si deve attendere la
seconda metà del secolo per individuare
una vera e propria costituzione legale della Comunità,
che venne a coincidere con l'acquisizione del
primo cimitero di Campo Fiore, in via San Francesco
(in uso dal 1599 ca. fino al 1780). Ben presto,
tuttavia, anche l'ebraismo veronese conobbe la
reclusione in ghetto, anche per l'intervento del
vescovo Valerio (ricordato in versi dal Grandi
come colui che tolse alle pubbliche vie / gli
Ebrei e nella mandria li rinchiuse), preoccupato
dell'eccessiva promiscuità venutasi a creare
con la crescita delle imprese ebraiche. Fu dunque
scelta come area per il ghetto una zona adiacente
a piazza delle Erbe, che prese il nome di "sotto
i tetti". Questo si trova oggi tra le attuali
via Mazzini e via dei Pellicciai: sito opportuno,
ribadiscono gli atti dell'epoca, anche per poter
utilizzare la fontana della vicina piazza.
A differenza di quanto avvenne a Venezia e in
altre località della penisola, la nascita
del ghetto, istituito ufficialmente nel 1600,
fu salutata dagli stessi ebrei come un atto "liberatorio"
(salvaguardia da violenze esterne, barriera all'assimilazione,
ma soprattutto la fine di furibonde polemiche
interne alla stessa Comunità sulla distribuzione
degli alloggi e delle botteghe). Addirittura,
fatto a dir poco singolare, l'anniversario della
reclusione fu festeggiato con canti e balli e
ricordato periodicamente per molti anni.
Il Seicento costituì un secolo importante
per l'ebraismo veronese. Si ha notizia di una
accusa di omicidio rituale nel 1603 contro un
certo Giuseppe, accusa che non ebbe seguito, perché
le autorità cittadine risolsero velocemente
il processo con una piena assoluzione. Nel 1638
ebbe luogo una prima ondata immigratoria di ebrei
sefarditi provenienti da Venezia, con a capo la
famiglia Aboaf di Amburgo, a cui si aggiunsero
nel 1655 molti ebrei di origine marrana, per lo
più commercianti. Nacque persino una comunità
separata, con sinagoga propria e un proprio ghetto,
in un'area adiacente anch'essa a Via Mazzini e
via dei Pellicciai, da cui prese il nome la cosiddetta
Corte Spagnola (ricordata ancora oggi da una stretta
via). Nonostante le differenze di rito e di consuetudini,
la collaborazione tra i due gruppi si fece via
via sempre più stretta, fino a giungere
nel 1675 all'istituzione di una scuola comune.
Il massimo splendore della Comunità fu
raggiunto verso la fine del secolo, con una popolazione
di circa 900 persone (un numero destinato a crescere
fino a toccare le 1400 unità nel 1864,
anno in cui iniziò l'edificazione del nuovo
tempio). Oltre alle attività consuete,
gli ebrei veronesi avevano l'appalto del commercio
del tabacco, come si deduce dalla presenza di
una bottega in piazza dei Signori verso il 1657
(una deroga all'ordine di restare nel ghetto).
Nei primi anni del Settecento, gli ebrei ebbero
l'appalto degli alloggi per la milizia pedestre;
successivamente diversi esponenti della Comunità
furono impegnati nello stesso secolo nell'intermediazione
per l'esazione dei pubblici dazi. Infine, l'ingresso
a Verona delle truppe napoleoniche, nel 1797,
decretò l'abbattimento dei portoni del
ghetto.
La presenza ebraica nella vita economica e sociale
della città era in quel momento già
rilevante: gli ebrei godevano infatti del privilegio
di concorrere alla vendita delle merci nella grande
fiera del Campo Marzio; molte botteghe erano di
loro proprietà e, fin dal Seicento, avevano
allacciato stretti rapporti (in particolar modo
riguardanti il refe e le stoffe finite), con le
imprese del lago di Garda. Inoltre, molti di loro
raggiunsero importanti livelli artistici: erano
ebrei due grandi musicisti del Settecento veronese,
Giacobbe Bassani Cervetto e il figlio Giacomo
- noto per aver introdotto in Inghilterra l'arte
del violoncello -, e il pittore Salomone Bassan.
Dopo la dominazione austriaca, con l'annessione
di Verona al regno d'Italia, nel 1866, per gli
ebrei venne la completa emancipazione. Poi iniziò
la contrazione della Comunità che passò
dai 600 iscritti del 1909 ai 429 del 1931. Anche
Verona ebraica visse la tragica epoca delle leggi
razziali e della deportazione: trentuno persone,
come ricorda la lapide apposta nel luglio 1957
all'esterno della sinagoga di via Portici, non
fecero più ritorno. Oggi, la Comunità
veronese conta un centinaio di persone, numero
di poco inferiore a quello dell'immediato dopoguerra.
La sinagoga, di rito tedesco, e la sede della
Comunità sono in pieno centro storico.
Per raggiungere via Portici (un tempo contrà
San Tomio) ci si lascia alle spalle la grande
piazza Bra' con l'Arena, proseguendo per la pedonale
via Mazzini e girando successivamente a sinistra.
La strada ha, sulla sinistra, ancora un fitto
porticato (proprio come ricordano documenti del
1599 relativi all'acquisto di beni immobili da
parte del nucleo ebraico, alcune case murà
solarà in contrà di San Tomio col
suo portico). L'ingresso alla sinagoga è
al n. 3 mentre la facciata, particolarmente imponente
ma appesantita da decorazioni, dà sulla
traversa di via Rita Rosani, la prima parallela
di via Mazzini.
L'interno è grandioso e ben conservato,
con il podio (bimà) posto sullo stesso
lato dell'arca (aròn): caratteristica comune
a molte delle maggiori sinagoghe ottocentesche
del Veneto. Una balaustra divide la zona destinata
all'officiante dal resto dell'ambiente, mentre
il matroneo, al piano superiore (attualmente chiuso),
è sostenuto da colonne. Tra le sinagoghe
veronesi, questa è l'unica giunta fino
a noi. Dell'antico tempio quattrocentesco di vicolo
dei Crocioni, non rimane infatti che il ricordo
e un disegno della Tribuna, esposto ancora agli
inizi del nostro secolo negli Uffici della Comunione
Israelitica, come ricorda lo storico Morpurgo.
Si ha anche notizia di una sinagoga di rito spagnolo,
al quinto piano di una casa che dava su piazza
delle Erbe, ma l'edificio fu ricostruito nel 1759.
Dopo la demolizione dello stesso ghetto e delle
case, gli arredi dell'oratorio spagnolo hanno
trovato collocazione nell'attuale tempio. Nell'Educatore
Israelita del 1864, infine, lo storico Forti cita
anche un oratorio privato di rito tedesco.
Oltre a quello di Campo Fiore, è certa
la presenza in Verona di un cimitero ebraico a
Porta Nuova, nell'orto Parolini, inaugurato nel
1755 e in uso per circa un secolo: non ne rimangono,
tuttavia, che rare fotografie. Quello attuale
ha sede in via Antonio Badile, in borgo Venezia,
a poca distanza da Porta Vescovio: è visitabile
tutte le mattine, escluso il sabato (9-12, domenica
9-13); il pomeriggio, dal 1° ottobre al 31
marzo (14-17); dal 1° aprile al 30 settembre
(15-18, tranne, per tutto l'anno, venerdì,
sabato e domenica).
LA GASTRONOMIA EBRAICA IN VENETO
Molti piatti della cucina popolare veneta hanno
origini ebraiche. Soprattutto a Venezia, secoli
di promiscuità e di frequentazione, in
un tessuto culturale abituato alla molteplicità
degli influssi, hanno creato una simbiosi strettissima
e permanente tra le tradizioni indigene e le regole
gastronomiche degli ebrei: così frutta
e verdura dell'estuario, le ricche pescate, i
gusti saporiti dei mercati orientali si sono adeguati
alle norme della kasherùth (l'insieme di
regole della tradizione giudaica che regolamenta
i cibi "puri" e "impuri"),
con risultati fantasiosi e ineguagliabili.
Ci sono cibi di derivazione ebraica che ormai,
a pieno titolo, sono considerati come piatti tipici
veneziani: basti pensare alle celeberrime sarde
in saor, le sardine fritte e stufate nell'aceto,
o ai bigoli in salsa, speciali spaghetti scuri
conditi con cipolle e acciughe.
Anche i risotti con verdure o spezie, di goldoniana
memoria - dai risi e bisi a prove più elaborate,
come risi e uvete (con l'uva passa) o risi e zafran
(vale a dire con lo zafferano, solo che, a differenza
della ricetta originaria milanese, non è
previsto l'uso di condimenti a base di maiale)
- derivano spesso dall'uso ebraico di preparare
la minestra prima del riposo sabbatico. Qualche
volta il riso è cotto nel forno (una sorta
di pilaf) e il fondo di preparazione si sbizzarrisce
tra ortaggi di stagione, dureli (ventrigli di
pollo) e fegatini. I risi e spinassi (con gli
spinaci) vengono arricchiti con salsicce di manzo
(le cosiddette luganeghe) o salame d'oca. Si attribuisce
infatti all'influsso della cucina ebraica, che
ne ha sempre fatto largo uso, l'avvento a Venezia
del tacchino, così come di anatre e oche.
Il risultato è l'invenzione di ricette
come le cosiddette grigole, pezzetti di pelle
e grasso d'oca, fritti in padella per ricavarne
il grasso. Si mangiano caldi e croccanti, salati
e scolati (mentre il grasso in eccesso si utilizza
per i piselli con cui si condisce la pasta). Con
le grigole si prepara anche un'ottima focaccia
salata. Oppure, si possono citare i pettisin a'
tonno, nome singolare con cui si definiscono i
petti d'oca in umido, secondo un'antica ricetta,
così come il polpeton de dindio (polpettone
di tacchino con la pelle) che non manca mai sulla
tavola del Sèder, le sere di Pèsach.
Caratteristico della gastronomia ebraico-veneta
(e in particolare veneziana) è l'uso dell'agrodolce:
ne sono un tipico esempio le carote alla giudia
con uvette e pinoli stufate nell'aceto (dette
anche cegolette con l'aggiunta di un cucchiaio
raso di zucchero) o le stesse verze sofegae della
tradizione veneta (cavolo-verza scaltrito con
cipolla, aglio e olio - gli ebrei vi aggiungono
anche grasso d'oca - poi irrorato con qualche
cucchiaiata d'aceto e un po' di zucchero). Un'altra
caratteristica tipicamente ebraica, ormai entrata
a far parte della cultura culinaria veneta, è
la fantasia nell'utilizzare parti commestibili
raramente usate nelle ricette comuni: si pensi
ai gambetti de spinasse, i "gambucci"
degli spinaci che - tolto il torsolo - vengono
lessati, strizzati e passati in padella con olio,
pepe e aceto; allo stesso modo, nelle coe de radicio,
la "scorzonera" è lessata e tagliata
a tronchetti e, privata dell'anima dura, viene
condita con una salsa a base di olio, aglio, acciughe
ed uvette. Persino il baccalà, uno dei
punti di forza della cucina veneta, ha un'anima
ebraica: tra le tante ricette, da segnalare un
"baccalà in agrodolce", con aceto,
zucchero, pinoli e uva passa e una versione speciale
del "baccalà alla vicentina"
condito con parmigiano, sale, pepe e cannella.
L'espressione più opulenta del mangiare
alla giudìa, è rappresentata a Venezia
dal frisinsal, conosciuto anche altrove come hamin
o "ruota del Faraone": un pasticcio
di tagliatelle con uva passa, pinoli e pezzetti
di salame d'oca, a cui la tradizione locale aggiunge
un trito fine di rosmarino e salvia. Ne è
parente povera la polenta pastisada, che si cucina
in forno con un ragù di carne. Esistono
poi preparazioni particolari, che richiedono l'utilizzo
di paste e ripieni: dalle buricche, grandi ravioli
con interno dolce o salato, cotti al forno oppure
fritti alla melina (dischi di pasta da buricche
inframmezzati da strati di ripieno e passati in
forno). Altro è la melina di pasta limpada:
(limpadura è una lavorazione della pasta
frolla che tende a farla divenire più omogenea
possibile per contenere ripieni zuccherati).
Un discorso a parte meritano i dolci, entrati
ormai a pieno titolo nella gastronomia veneziana
come raffinate ghiottonerie, serviti come curiosità
nei pranzi più eleganti. Dalle biosse (dolcetti
non lievitati a forma di "esse" che
si mangiano durante i giorni di Pasqua (Pésach)
alle impade ripiene di pasta di mandorle, al bussolà
(da nome del bolo con cui gli ebrei veneti rompono
il digiuno di Kippùr).
Si possono infine citare, perché particolarmente
care alla tradizione veneziana, le orecchie di
Amman, legate al Purìm: sono strisce di
sfoglia molto sottile, fritte in olio come i locali
galani di Carnevale, e spolverizzate di zucchero
a velo (qualcuno le serve dopo averle glassate
nel miele).
Tratto da
VENETO I LUOGHI, LA
STORIA, L'ARTE
Marsilio - Regione del Veneto
a cura di Francesca Brandes, nella collana a cura
di Annie Sacerdoti ITINERARI
EBRAICI
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