GLI EBREI
A VERONA

 
di FRANCESCA BRANDES

 

IL RESTAURO DELLA SINAGOGA

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LA CUCINA

Tra due anse dell'Adige, protetta a nord-est dagli ultimi rilievi prealpini, Verona gode di una posizione strategica, allo sbocco della via del Brennero, che ne ha fatto il maggiore nodo d'interscambio con i paesi d'oltralpe. Seconda città del Veneto per sviluppo economico, vanta istituzioni culturali (è sede universitaria) ed economiche di prestigio (Fiera dell'agricoltura). L'insediamento romano nacque sulla via Postumia; già nel I secolo a.C. la città era un centro economico e culturale di primo piano. L'abitato romano si sviluppò entro l'area dell'ansa; molti degli isolati odierni ricalcano ancora la maglia romana.

 


L'affermazione della signoria scaligera (1262) aprì una fase di rinnovamento edilizio, che ebbe il momento centrale nella costruzione di Castelvecchio (1354-57); ora vi è ospitato il Civico museo d'arte, uno dei maggiori d'Italia. Centro nevralgico della città è la piazza delle Erbe, che sorse per progressiva riduzione dell'area del Foro romano e acquistò l'aspetto attuale per gli interventi di età scaligera. All'angolo con Via Mazzini, vi sono ancora le fronti delle case-torri, avamposto del ghetto demolito nel 1924. Adiacente a quella delle Erbe, la piccola piazza dei Signori (l'antico centro politico). Vi si affacciano i palazzi del Comune (XII secolo), del Capitanio (1363), della Prefettura (XIV secolo) e l'elegante Loggia del Consiglio (1485-92). Poco distante si trova il complesso delle Arche scaligere, una delle vette della scultura funeraria gotica, che accoglie le tombe dei della Scala.
Sant'Anastasia, maestosa chiesa gotica (1290-1481), sorge più a nord; spicca sulla facciata incompiuta lo splendido portale. L'interno racchiude, tra le molte opere, un grande affresco (1370 ca.) di Altichiero e il capolavoro di Pisanello, San Giorgio che parte per liberare la donzella dal drago. Quasi sulla punta dell'ansa è il Duomo (1117, ampliato nel 1444), sulla cui facciata romanica si apre il protiro a due piani. Sulla stessa piazza si trova la Biblioteca capitolare, una delle più antiche (la fondazione dello Scriptorium risale al V secolo) e ricche istituzioni del suo genere in Europa, con codici rarissimi. La Porta dei Bùrsari era l'ingresso principale della città romana; fu aperta (metà del I secolo) sulla via Postumia, che dentro le mura coincideva con il decumano maggiore. Oggi ne rimane la sola facciata esterna.
Via Mazzini fu aperta nel 1393 da Gian Galeazzo Visconti sul tracciato di un decumano minore per collegare le piazze Bra' e delle Erbe; venne ricostruita nel XIX secolo. Piazza Bra' è il maggiore centro di ritrovo cittadino: fu realizzata tra il 1770 e la metà del XIX secolo, quando si crearono il listòn, il Museo lapidario Maffeiano, i palazzi della Gran Guardia Nuova (1848) e della Gran Guardia (1610-1836). Domina la piazza la mole dell'Arena, terzo anfiteatro d'Italia con 25 mila posti. Venne costruita nei primi decenni del secolo a.C. Corso Cavour segue il tracciato dell'ultimo tratto suburbano della via Postumia; fu l'asse portante dello sviluppo della città medievale e su esso si concentrò l'intervento di Michele Sanmicheli, architetto veronese del Cinquecento. Suoi sono i palazzi Bevilacqua e Canossa.
Meritano infine una segnalazione due monumenti lontani dal centro storico: San Zeno Maggiore è un capolavoro del romanico italiano, sorto alla fine del IX secolo e riedificato nel 1120-38. Al lato opposto della città, sorge l'area archeologica del Teatro romano; il complesso (I secolo d.C.) è uno dei più ricchi dell'Italia settentrionale; vi ha sede il Museo archeologico.
La prima notizia indiretta sulla presenza di un nucleo ebraico a Verona risale al X secolo; nell'anno 965, il vescovo Raterio ne ottenne infatti l'espulsione sulla base di un contraddittorio religioso. Due secoli dopo, gli ebrei ricomparvero in alcuni documenti di San Giorgio in Braida, databili tra il 1169 e il 1225 (un testamento e alcuni atti di compravendita), che dimostrano non solo il loro rientro in città, ma anche il possesso da parte loro di proprietà immobiliari nell'ambito urbano e di terreni nelle campagne circostanti. Dai nomi citati, si deduce l'origine askenazita del gruppo originario, per lo più composto da profughi sfuggiti alle persecuzioni in terra tedesca. Un legame, quello con i correligionari d'oltralpe, destinato a non venire meno, come si ricava dagli Incartamenti dell'Ospitale e degli Esposti, che testimoniano i frequenti contatti tra la città atesina e l'ambiente germanico.
La presenza ebraica proseguì nel periodo successivo: tra il 1146 e il 1147 vi soggiornò il poeta Abrahàm ibn Ezra, che vi compose due opere; così come sono degni di menzione il rabbino Eliezer ben Shemuel e il filosofo e talmudista Hillèl ben Shemuel. Mentre si dà per certa la presenza di un tribunale rabbinico a Verona nel 1239, è scarsa la documentazione relativa al periodo del dominio scaligero. Con ogni probabilità, il poeta Immanuel ben Shelomoh Romano (detto Manoello Giudeo) trascorse un periodo alla corte di Can Grande della Scala, descritto con vivacità nel Bishidis a Magnificenza di Messer Can della Scala dove scriveva: Baroni e Marchesi / di tutti i paesi, / gentilli e cortesi qui veddi arrivare. / [...] Quivi babbuini / romei, peregrini / giudei, sarracini / vedrai capitare.
Il ritorno ufficiale degli ebrei a Verona coincise con l'inizio della dominazione veneziana. Con un atto del 31 dicembre 1406 la Serenissima li autorizzava a risiedere in città, a patto che praticassero esclusivamente il prestito. In quell'occasione fu loro assegnato un quartiere, in contrada San Sebastiano. In vicolo Crocioni (nei pressi di piazza delle Erbe) venne edificata la prima sinagoga, con ogni probabilità di rito tedesco. Non si trattava ancora, tuttavia, di una sistemazione definitiva. Nuovamente espulsi e ancora richiamati nel 1499, gli ebrei si stabilirono definitivamente in città solo dopo la fine del 1516 quando la Serenissima, agli ultimi atti della rovinosa lotta contro la Lega di Cambrai, riuscì a riscattare Verona.
Accordato alla Dominante un prestito di diecimila ducati, gli ebrei veronesi conobbero dunque un periodo di relativa prosperità. Accanto ai prestatori e ai mercanti all'ingrosso, comparvero anche sensali e rigattieri, professionisti e sarti. Il gruppo (perché di comunità non si può ancora ufficialmente parlare) controllava inoltre direttamente gran parte della manifattura dei fustagni e di altre stoffe. Anziché continuare ad abitare nei dintorni di vicolo Crocioni, molti scelsero altre zone cittadine, mentre gli ebrei di Venezia dal 1516 erano già stati chiusi nel ghetto. Risale al 1539, il primo computo ufficiale degli ebrei veronesi, stimati a circa 400 individui secondo la Raccolta di memorie delle adunanze, documento utilizzato per stabilire il pagamento delle tasse. Ma si deve attendere la seconda metà del secolo per individuare una vera e propria costituzione legale della Comunità, che venne a coincidere con l'acquisizione del primo cimitero di Campo Fiore, in via San Francesco (in uso dal 1599 ca. fino al 1780). Ben presto, tuttavia, anche l'ebraismo veronese conobbe la reclusione in ghetto, anche per l'intervento del vescovo Valerio (ricordato in versi dal Grandi come colui che tolse alle pubbliche vie / gli Ebrei e nella mandria li rinchiuse), preoccupato dell'eccessiva promiscuità venutasi a creare con la crescita delle imprese ebraiche. Fu dunque scelta come area per il ghetto una zona adiacente a piazza delle Erbe, che prese il nome di "sotto i tetti". Questo si trova oggi tra le attuali via Mazzini e via dei Pellicciai: sito opportuno, ribadiscono gli atti dell'epoca, anche per poter utilizzare la fontana della vicina piazza.
A differenza di quanto avvenne a Venezia e in altre località della penisola, la nascita del ghetto, istituito ufficialmente nel 1600, fu salutata dagli stessi ebrei come un atto "liberatorio" (salvaguardia da violenze esterne, barriera all'assimilazione, ma soprattutto la fine di furibonde polemiche interne alla stessa Comunità sulla distribuzione degli alloggi e delle botteghe). Addirittura, fatto a dir poco singolare, l'anniversario della reclusione fu festeggiato con canti e balli e ricordato periodicamente per molti anni.
Il Seicento costituì un secolo importante per l'ebraismo veronese. Si ha notizia di una accusa di omicidio rituale nel 1603 contro un certo Giuseppe, accusa che non ebbe seguito, perché le autorità cittadine risolsero velocemente il processo con una piena assoluzione. Nel 1638 ebbe luogo una prima ondata immigratoria di ebrei sefarditi provenienti da Venezia, con a capo la famiglia Aboaf di Amburgo, a cui si aggiunsero nel 1655 molti ebrei di origine marrana, per lo più commercianti. Nacque persino una comunità separata, con sinagoga propria e un proprio ghetto, in un'area adiacente anch'essa a Via Mazzini e via dei Pellicciai, da cui prese il nome la cosiddetta Corte Spagnola (ricordata ancora oggi da una stretta via). Nonostante le differenze di rito e di consuetudini, la collaborazione tra i due gruppi si fece via via sempre più stretta, fino a giungere nel 1675 all'istituzione di una scuola comune. Il massimo splendore della Comunità fu raggiunto verso la fine del secolo, con una popolazione di circa 900 persone (un numero destinato a crescere fino a toccare le 1400 unità nel 1864, anno in cui iniziò l'edificazione del nuovo tempio). Oltre alle attività consuete, gli ebrei veronesi avevano l'appalto del commercio del tabacco, come si deduce dalla presenza di una bottega in piazza dei Signori verso il 1657 (una deroga all'ordine di restare nel ghetto). Nei primi anni del Settecento, gli ebrei ebbero l'appalto degli alloggi per la milizia pedestre; successivamente diversi esponenti della Comunità furono impegnati nello stesso secolo nell'intermediazione per l'esazione dei pubblici dazi. Infine, l'ingresso a Verona delle truppe napoleoniche, nel 1797, decretò l'abbattimento dei portoni del ghetto.
La presenza ebraica nella vita economica e sociale della città era in quel momento già rilevante: gli ebrei godevano infatti del privilegio di concorrere alla vendita delle merci nella grande fiera del Campo Marzio; molte botteghe erano di loro proprietà e, fin dal Seicento, avevano allacciato stretti rapporti (in particolar modo riguardanti il refe e le stoffe finite), con le imprese del lago di Garda. Inoltre, molti di loro raggiunsero importanti livelli artistici: erano ebrei due grandi musicisti del Settecento veronese, Giacobbe Bassani Cervetto e il figlio Giacomo - noto per aver introdotto in Inghilterra l'arte del violoncello -, e il pittore Salomone Bassan.
Dopo la dominazione austriaca, con l'annessione di Verona al regno d'Italia, nel 1866, per gli ebrei venne la completa emancipazione. Poi iniziò la contrazione della Comunità che passò dai 600 iscritti del 1909 ai 429 del 1931. Anche Verona ebraica visse la tragica epoca delle leggi razziali e della deportazione: trentuno persone, come ricorda la lapide apposta nel luglio 1957 all'esterno della sinagoga di via Portici, non fecero più ritorno. Oggi, la Comunità veronese conta un centinaio di persone, numero di poco inferiore a quello dell'immediato dopoguerra.
La sinagoga, di rito tedesco, e la sede della Comunità sono in pieno centro storico. Per raggiungere via Portici (un tempo contrà San Tomio) ci si lascia alle spalle la grande piazza Bra' con l'Arena, proseguendo per la pedonale via Mazzini e girando successivamente a sinistra. La strada ha, sulla sinistra, ancora un fitto porticato (proprio come ricordano documenti del 1599 relativi all'acquisto di beni immobili da parte del nucleo ebraico, alcune case murà solarà in contrà di San Tomio col suo portico). L'ingresso alla sinagoga è al n. 3 mentre la facciata, particolarmente imponente ma appesantita da decorazioni, dà sulla traversa di via Rita Rosani, la prima parallela di via Mazzini.
L'interno è grandioso e ben conservato, con il podio (bimà) posto sullo stesso lato dell'arca (aròn): caratteristica comune a molte delle maggiori sinagoghe ottocentesche del Veneto. Una balaustra divide la zona destinata all'officiante dal resto dell'ambiente, mentre il matroneo, al piano superiore (attualmente chiuso), è sostenuto da colonne. Tra le sinagoghe veronesi, questa è l'unica giunta fino a noi. Dell'antico tempio quattrocentesco di vicolo dei Crocioni, non rimane infatti che il ricordo e un disegno della Tribuna, esposto ancora agli inizi del nostro secolo negli Uffici della Comunione Israelitica, come ricorda lo storico Morpurgo. Si ha anche notizia di una sinagoga di rito spagnolo, al quinto piano di una casa che dava su piazza delle Erbe, ma l'edificio fu ricostruito nel 1759. Dopo la demolizione dello stesso ghetto e delle case, gli arredi dell'oratorio spagnolo hanno trovato collocazione nell'attuale tempio. Nell'Educatore Israelita del 1864, infine, lo storico Forti cita anche un oratorio privato di rito tedesco.
Oltre a quello di Campo Fiore, è certa la presenza in Verona di un cimitero ebraico a Porta Nuova, nell'orto Parolini, inaugurato nel 1755 e in uso per circa un secolo: non ne rimangono, tuttavia, che rare fotografie. Quello attuale ha sede in via Antonio Badile, in borgo Venezia, a poca distanza da Porta Vescovio: è visitabile tutte le mattine, escluso il sabato (9-12, domenica 9-13); il pomeriggio, dal 1° ottobre al 31 marzo (14-17); dal 1° aprile al 30 settembre (15-18, tranne, per tutto l'anno, venerdì, sabato e domenica).
LA GASTRONOMIA EBRAICA IN VENETO
Molti piatti della cucina popolare veneta hanno origini ebraiche. Soprattutto a Venezia, secoli di promiscuità e di frequentazione, in un tessuto culturale abituato alla molteplicità degli influssi, hanno creato una simbiosi strettissima e permanente tra le tradizioni indigene e le regole gastronomiche degli ebrei: così frutta e verdura dell'estuario, le ricche pescate, i gusti saporiti dei mercati orientali si sono adeguati alle norme della kasherùth (l'insieme di regole della tradizione giudaica che regolamenta i cibi "puri" e "impuri"), con risultati fantasiosi e ineguagliabili.
Ci sono cibi di derivazione ebraica che ormai, a pieno titolo, sono considerati come piatti tipici veneziani: basti pensare alle celeberrime sarde in saor, le sardine fritte e stufate nell'aceto, o ai bigoli in salsa, speciali spaghetti scuri conditi con cipolle e acciughe.
Anche i risotti con verdure o spezie, di goldoniana memoria - dai risi e bisi a prove più elaborate, come risi e uvete (con l'uva passa) o risi e zafran (vale a dire con lo zafferano, solo che, a differenza della ricetta originaria milanese, non è previsto l'uso di condimenti a base di maiale) - derivano spesso dall'uso ebraico di preparare la minestra prima del riposo sabbatico. Qualche volta il riso è cotto nel forno (una sorta di pilaf) e il fondo di preparazione si sbizzarrisce tra ortaggi di stagione, dureli (ventrigli di pollo) e fegatini. I risi e spinassi (con gli spinaci) vengono arricchiti con salsicce di manzo (le cosiddette luganeghe) o salame d'oca. Si attribuisce infatti all'influsso della cucina ebraica, che ne ha sempre fatto largo uso, l'avvento a Venezia del tacchino, così come di anatre e oche.
Il risultato è l'invenzione di ricette come le cosiddette grigole, pezzetti di pelle e grasso d'oca, fritti in padella per ricavarne il grasso. Si mangiano caldi e croccanti, salati e scolati (mentre il grasso in eccesso si utilizza per i piselli con cui si condisce la pasta). Con le grigole si prepara anche un'ottima focaccia salata. Oppure, si possono citare i pettisin a' tonno, nome singolare con cui si definiscono i petti d'oca in umido, secondo un'antica ricetta, così come il polpeton de dindio (polpettone di tacchino con la pelle) che non manca mai sulla tavola del Sèder, le sere di Pèsach.
Caratteristico della gastronomia ebraico-veneta (e in particolare veneziana) è l'uso dell'agrodolce: ne sono un tipico esempio le carote alla giudia con uvette e pinoli stufate nell'aceto (dette anche cegolette con l'aggiunta di un cucchiaio raso di zucchero) o le stesse verze sofegae della tradizione veneta (cavolo-verza scaltrito con cipolla, aglio e olio - gli ebrei vi aggiungono anche grasso d'oca - poi irrorato con qualche cucchiaiata d'aceto e un po' di zucchero). Un'altra caratteristica tipicamente ebraica, ormai entrata a far parte della cultura culinaria veneta, è la fantasia nell'utilizzare parti commestibili raramente usate nelle ricette comuni: si pensi ai gambetti de spinasse, i "gambucci" degli spinaci che - tolto il torsolo - vengono lessati, strizzati e passati in padella con olio, pepe e aceto; allo stesso modo, nelle coe de radicio, la "scorzonera" è lessata e tagliata a tronchetti e, privata dell'anima dura, viene condita con una salsa a base di olio, aglio, acciughe ed uvette. Persino il baccalà, uno dei punti di forza della cucina veneta, ha un'anima ebraica: tra le tante ricette, da segnalare un "baccalà in agrodolce", con aceto, zucchero, pinoli e uva passa e una versione speciale del "baccalà alla vicentina" condito con parmigiano, sale, pepe e cannella.
L'espressione più opulenta del mangiare alla giudìa, è rappresentata a Venezia dal frisinsal, conosciuto anche altrove come hamin o "ruota del Faraone": un pasticcio di tagliatelle con uva passa, pinoli e pezzetti di salame d'oca, a cui la tradizione locale aggiunge un trito fine di rosmarino e salvia. Ne è parente povera la polenta pastisada, che si cucina in forno con un ragù di carne. Esistono poi preparazioni particolari, che richiedono l'utilizzo di paste e ripieni: dalle buricche, grandi ravioli con interno dolce o salato, cotti al forno oppure fritti alla melina (dischi di pasta da buricche inframmezzati da strati di ripieno e passati in forno). Altro è la melina di pasta limpada: (limpadura è una lavorazione della pasta frolla che tende a farla divenire più omogenea possibile per contenere ripieni zuccherati).
Un discorso a parte meritano i dolci, entrati ormai a pieno titolo nella gastronomia veneziana come raffinate ghiottonerie, serviti come curiosità nei pranzi più eleganti. Dalle biosse (dolcetti non lievitati a forma di "esse" che si mangiano durante i giorni di Pasqua (Pésach) alle impade ripiene di pasta di mandorle, al bussolà (da nome del bolo con cui gli ebrei veneti rompono il digiuno di Kippùr).
Si possono infine citare, perché particolarmente care alla tradizione veneziana, le orecchie di Amman, legate al Purìm: sono strisce di sfoglia molto sottile, fritte in olio come i locali galani di Carnevale, e spolverizzate di zucchero a velo (qualcuno le serve dopo averle glassate nel miele).

Tratto da
VENETO I LUOGHI, LA STORIA, L'ARTE
Marsilio - Regione del Veneto
a cura di Francesca Brandes, nella collana a cura di Annie Sacerdoti
ITINERARI EBRAICI