di Anna Foa
Per parlare della posizione della donna nell’ebraismo e del ruolo delle donne ebree nella storia, il discorso dovrebbe forse iniziare dai testi, e dal modo con cui nel Tanakh è stato posto il tema della creazione della donna, un tema questo su cui molto inchiostro è stato sparso a sostenere ora la subordinazione ora l’uguaglianza del sesso femminile. Tratta dalla costola di Adamo o collocata vicino all’uomo con la stessa dignità? Ma mi limiterò in questa breve riflessione alla storia e alle sue alterne vicende, pur nella consapevolezza che i testi hanno fornito di volta in volta, nel tempo, spazio a diverse interpretazioni e di conseguenza hanno variamente influito sulla vita quotidiana, sull’educazione dei due generi, sul rapporto delle donne con la sfera pubblica e con il rituale. Ma, dal momento che a partire dall’inizio dell’era volgare gli ebrei hanno prevalentemente vissuto in mezzo a culture esterne diverse dalla loro, non dobbiamo trascurare il fatto evidente che a determinare la posizione della donna nella società ebraica, o meglio nelle società ebraiche, hanno contribuito, accanto alle prescrizioni dei testi, anche gli influssi delle società esterne, da quella pagana dell’età antica, a quella cristiana, a quella islamica, per limitarci ad ampie generalizzazioni che non tengono conto delle diversità temporali e geografiche che quelle stesse culture presentano.
Poco loquace sulla storia degli ebrei in generale, il primo millennio lo è ancor meno sulla storia delle donne ebree. Qualche nome femminile sui reperti archeologici, qualche estrapolazione dai testi talmudici, che in generale sono più loquaci sulle matrone romane che sulle donne ebree, e forse anche, perché no?, quello che ricaviamo dai testi cristiani, dai Vangeli in particolare, che ci descrivono con molti particolari la vita e la storia dell’ebrea Maria e di suo figlio, l’ebreo Gesù. Più ampie e approfondite divengono, naturalmente, le nostre conoscenze a partire dal secondo millennio dell’era volgare. E naturalmente, sono le eccezionalità tragiche e non le quotidianità senza storia a lasciare maggiori tracce. Le cronache ebraiche della prima Crociata, quando nel 1096 bande marginali di crociati distrussero le comunità ebraiche renane, ci tramandano di madri che uccidevano i loro figli prima di darsi loro stesse la morte nel kiddush ha shem, mentre i canti sinagogali che risalgono a quell’epoca ci trasmettono, tra i nomi dei martiri, anche quelli delle donne. Scarse restano comunque le tracce delle donne ebree del Medioevo, affidate a fonti notarili o, in altri casi, a fonti giudiziarie. Mogli e figlie che ricorrono ai tribunali in difesa della loro dote, donne che appaiono in qualche storia famigliare finita in tribunale, spezzoni di storie in cui poco sappiamo davvero. Impossibile ricostruire a tutto tondo le immagini di queste donne, il loro ruolo complessivo, solo brevi accenni ne sottolineano l’uno o l’altro aspetto. Più prodiga l’età del Rinascimento, soprattutto in Italia, dove emergono figure di poetesse, attrici, letterate. A Venezia, Sara Copio Sullam, poetessa e letterata, allieva di Leone Modena, il cui salotto fu frequentato da ebrei e cristiani. E a Mantova, dove operava alla Corte dei Gonzaga una compagnia ebraica di teatranti, troviamo una cantante famosa, Madama Europa, sorella del grande musicista Salamone Rossi. Nella Germania del Seicento, invece, emerge la figura di Glueckel von Hameln, autrice (forse la prima donna ebrea a esserlo) di un’autobiografia, mercantessa ed ebrea devota. Nel suo libro, oltre ad interessanti immagini della vita del tempo, troviamo spunti importanti sui legami coniugali, sull’etica della famiglia, sui rapporti con i figli, sulla concezione del lavoro e del guadagno.
Più notizie abbiamo sulle donne che si trovarono ai confini tra mondo cattolico ed ebraico, in particolare sulle donne convertite a forza nella penisola iberica del XV e XVI secolo. Esse sono infatti le protagoniste di una fonte molto importante per ricostruirne le vicende, i verbali dell’Inquisizione Spagnola. Attenta a registrare tutto il conscio e fin l’inconscio delle sue vittime, l’Inquisizione ricostruisce episodi, immagini, vicende, soprattutto storie drammatiche di torture e di roghi, ma anche vicende quotidiane, di abiure, di conversioni frustranti, di ritorni al ghetto. Così, in Spagna nel Cinquecento una conversa ormai vecchia finisce, dopo lunghe torture, per confessare di non mangiare il maiale “per obbedire alla legge di Mosè”. Finirà sul rogo. Sottoposta all’Inquisizione più indulgente di Venezia, una donna convertita dopo la conversione di figli e nipoti, va bestemmiando il Cristo nelle chiese e finisce chiusa in casa sotto la sorveglianza dei figli, anch’essi neofiti. A Napoli, sotto Pio V, nel 1570, molte donne “marrane” di origine spagnola e portoghese e di alto livello sociale sono imprigionate per eresia marrana. Alcune di esse sono accusate di aver tradotto testi dall’ebraico. Anche qui, molte finiscono condannate a morte. E una vecchia ebrea ottantenne, Judith Franchetti, nella Mantova del 1600 finisce sul rogo come strega, pubblicamente. E che dire di donna Grazia Nassi, la Señora, una protagonista della storia europea, marrana, esule a Venezia e Ferrara e poi nell’Impero ottomano, anima del ritorno all’ebraismo dei marrani in Levante e della battaglia contro Roma, nel 1556, per il rogo dei marrani d’Ancona. Siamo di fronte ad un personaggio di alto rango e di grande rilievo.
Con l’emancipazione e l’avvento della modernità, il rapporto tra donne e uomini muta anche tra gli ebrei come nel mondo laicizzato. E se in alcuni paesi, e fra questi l’Italia, dove l’emancipazione procede senza traumi, le donne ebree, pur entrate nella modernità, assumono il ruolo di custodi della tradizione famigliare, in altri le tensioni sociali e politiche portano a sbocchi radicali il mondo ebraico tutto. In tale radicalizzazione emergono le donne: figure di rivoluzionarie nella Russia dello zar, pronte a compiere attentati, o figure di femministe, come Anna Kuliscioff, socialista e laureata in medicina, vissuta a lungo in Italia, o come le donne del sionismo socialista, pronte ad offrire modelli comportamentali di donne in tutto uguali agli uomini, suscitando lo scandalo degli ortodossi già presenti in Eretz Israel ma anche quello degli arabi
In anni recenti, sotto l’influenza del femminismo e della gender history, il dibattito storiografico si è concentrato sullo status della donna nella storia: le donne ebree delle comunità diasporiche tra Medioevo ed età moderna godevano di maggiori o minori possibilità di autonomia rispetto alle donne cristiane, avevano maggiori o minori accessi alla cultura e alla sfera lavorativa? Le risposte degli storici sono state diverse, come diverse erano naturalmente i contesti storici presi in esame. Non sempre, inoltre, la messa in luce di maggiori autonomie femminili andava nella direzione di un livello maggiore di “modernizzazione”. Gli studi degli storici hanno ad esempio messo in luce come nella Roma del ghetto determinate autonomie delle donne potevano appartenere ad una sfera più arcaica dei rapporti tra generi, nel momento in cui, come nel Rinascimento, la società cristiana nei suoi processi di trasformazione chiudeva, lungi dall’aprirli, spazi alle donne. Una particolare attenzione veniva anche prestata al problema del genere nelle conversioni: si convertivano di più le donne o gli uomini? Anche qui, il contesto era dominante. Alla maggiore resistenza femminile alla conversione delle donne nei ghetti italiani faceva da contraltare l’ondata di conversioni femminili nella Berlino di fine Settecento, messa in luce già da Hannah Arendt nella sua splendida biografia di Rahel Varnhagen e poi approfondita dalla storiografia.
Contemporaneamente, prendendo le mosse dall’ebraismo degli Stati Uniti, la discussione si spostava anche sul rapporto tra donne e pratica religiosa pubblica, anche qui sull’onda dell’apertura alle donne del rabbinato nell’ebraismo riformato e conservative. Le donne frequentavano gli spazi pubblici della preghiera o si limitavano ad obbedire alle mizvot di loro esclusiva competenza? Questo comportava un’analisi dei testi in chiave di lettura di genere e una maggiore attenzione per le effettive pratiche religiose femminili nella storia. Riemergevano all’attenzione le sinagoghe delle donne, le figure femminili che guidavano la preghiera delle donne nelle sinagoghe dei ghetti italiani. Un panorama variegato, che non ci consente certo di rovesciare l’immagine tradizionale della donna che accende le candele dello shabbat attendendo il ritorno degli uomini dalla sinagoga, ma che apre, in ogni situazione, spazi inattesi di diversità e possibilità di iniziative diverse. Insomma, nessuna risposta alla domanda generale su quale fosse il grado di autonomia femminile nella storia degli ebrei, ma storie diverse, contesti diversi, risposte diverse. Forse, più che la domanda sull’influsso dei testi e delle norme sui rapporti tra generi, dovremmo porci la domanda su come la chiusura nei ghetti o comunque l’appartenenza ad una minoranza discriminata e considerata inferiore possono aver influito sui rapporti di genere all’interno di questa minoranza e come questo si sia saldato, nella storia concreta delle comunità, con le norme della tradizione religiosa. Ma è una strada finora poco percorsa dagli studiosi.